martedì 24 gennaio 2012

Nemmeno avessi... un cellulare


Un cellulare. Nella mia borsa. Quasi scarico.
Sono in aeroporto e aspetto il mio volo. Da un po' di tempo a questa parte, gli aeroporti sono diventati dei posti in cui sentirsi sempre sotto controllo, e il più delle volte in difetto. Ma se anche nella borsa avessi una bomba ad orologeria, o della droga, non potrei sentirmi più tesa.
In borsa, il cellulare è una delle tre cose da non dimenticare quando esco di casa. Portafogli, chiavi, cellulare: ecco il passpartout per la vita del 2012. Perciò non deve scaricarsi. Semplicemente non può. E' un filo di Arianna che non ho nessuna intenzione di lasciare andare: sarà più che sufficiente spegnerlo il tempo del volo, e solo lo stretto necessario. All'atterraggio, insieme alle ruote sull'asfalto, sarà la sinfonia di una dozzina di cellulari accesi contemporaneamente a rendere reale l'arrivo.
Da un po' di tempo ho smesso di usarlo solo come un telefono. Ci leggo le mail, ci chatto. Soprattutto, ne ho bisogno. Mi rendo conto che è un feticcio. Riempie i momenti di noia. Mi aspetto che risponda al mio bisogno di contatti. Mi offre una finestra sul mondo. Un po' piccola, però, mi capita di pensare. E' come mettersi alla porta, e stare lì a guardare. Ad aspettare che passi qualcuno, come una vecchia comare. Stesso ozio mesto e molesto, e spesso, senza motivo, risentito; stessa ricerca di qualcosa da commentare; stesso bisogno di conferme. Anche l'alienazione è la stessa.
Ho un cellulare, nella borsa. Mi ossessiona. Forse mi ha scritto qualcuno. Forse, pure peggio, non mi ha scritto nessuno. Devo controllare. In continuazione. Controllo gli sms. Controllo la mail. Controllo Facebook. E poi di nuovo, daccapo. Non si sa mai. Poi rifletto. Non posso dipendere dal cellulare. Quindi lo lascio in borsa. Non ci penso. Non devo pensarci. Non cederò.
Comincio a leggere un libro. Riesco davvero a non pensarci. Per un po', finché non mi accorgo che attorno a me molti altri hanno un cellulare. Controlliamo e cancelliamo messaggi, guardiamo l'ora. Telefoniamo anche, ogni tanto. Questo meno. Per un attimo, eccoci: almeno tre chiamate in corso. Almeno tre persone impegnate in conversazioni con altri, fuori da quest'attesa, forse in attesa di qualcos'altro. Siamo tutti proiettati in altri mondi. Possibili? Reali? Irreali quanto questo?
Ci penso: è incredibile. Vogliamo tutto e subito, sempre. Ma non siamo capaci di accettare il qui e ora. E' perché l'attesa è, in effetti, una dilazione, cioè il contrario di un “qui e ora”? Ma allora è il futuro che ci terrorizza, tutto quello che non siamo in grado di attendere?
Il cellulare nella mia borsa, anzi nella mia mano, mi rende perennemente reperibile: che vuol dire continuamente altrove. Vogliamo vivere in un eterno presente. Ma è un presente che ci trova assenti, “impegnati in un'altra conversazione” o “checking for new messages”. A guardare il dito, mentre tramonta la luna. Ma io, Io, dove sono mentre la mia vita succede? Dove sono, Io, mentre la mia vita “vive”?